Il 19 ottobre 2004, la tranquilla città di Linköping fu sconvolta da un doppio omicidio brutale. Mohammed Ammouri, un bambino di otto anni, venne accoltellato mentre si recava a scuola, e Anna-Lena Svensson, una donna di 56 anni che cercò di intervenire, fu anch’essa tragicamente uccisa. Gli investigatori recuperarono DNA sulla scena del crimine, incluso un cappello abbandonato dall’assassino, ma le indagini si arenarono poiché il profilo genetico non trovò riscontri nei database esistenti. L’assenza di un movente chiaro e di legami tra le vittime complicò ulteriormente il caso. Nonostante anni di ricerche e migliaia di piste seguite, il colpevole rimase ignoto, trasformando questo episodio in uno dei casi irrisolti più celebri della Svezia e lasciando un profondo senso di perdita e frustrazione nella comunità e nei familiari delle vittime.
Dopo sedici anni di impasse, nel 2020 il caso fu riaperto grazie all’uso della genealogia forense, una tecnica pionieristica già impiegata con successo negli Stati Uniti. Attraverso l’analisi del DNA raccolto sulla scena del crimine e l’accesso a database genealogici pubblici, il genealogista Peter Sjölund riuscì a ricostruire l’albero genealogico del colpevole, identificando infine Daniel Nyqvist.
Nyqvist, che all’epoca del crimine aveva poco più di vent’anni, confessò immediatamente dopo l’arresto, dichiarando di aver agito sotto l’influenza di voci nella sua testa. Questa svolta non solo permise di risolvere uno dei casi più misteriosi del paese, ma rappresentò anche un passo significativo per l’utilizzo della genealogia forense nelle indagini europee. Tuttavia, l’impiego di questa tecnologia sollevò dibattiti etici, soprattutto in relazione alla tutela della privacy dei dati genetici e ai possibili rischi di un uso improprio di queste informazioni.